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Che la sinistra riparta dai poveri Cristi: “Il merito, il bisogno e il grande tumulto” di Claudio Martelli

Che la sinistra riparta dai poveri Cristi: “Il merito, il bisogno e il grande tumulto” di Claudio Martelli

Il nuovo saggio

L’ultima fatica letteraria dell’ex esponente del Partito Socialista Italiano, che si avvia dal suo discorso di Rimini del 1982, è una rifl essione sul socialismo come esigenza etica tra merito, bisogni e giustizia sociale

Che la sinistra riparta dai poveri Cristi: “Il merito, il bisogno e il grande tumulto” di Claudio Martelli

Da dove può ripartire la sinistra – orfana di ogni tradizione – se non da una comprensione profonda della natura umana, di come funziona? Questo il meritorio incipit di un saggio assai bello e corposo di Claudio Martelli: Il merito, il bisogno e il grande tumulto (La nave di Teseo). Ricordo in proposito quanto diceva Dwight Macdonald, socialista libertario americano: il migliore approccio al socialismo è ricordare sempre “che l’uomo è mortale e imperfetto” e “quindi non dovremmo esagerare”.

Il concetto di limite, obliterato dalla modernità, proviene dagli antichi greci e nasce da una riflessione sulla natura umana. Del saggio di Martelli – che si avvia dal suo discorso di Rimini del 1982 – condivido sia l’ispirazione generale sia i singoli giudizi sulla società italiana (Rai, quotidiani, partiti, costume…), sulla geopolitica, etc… (ad esempio: cedere alla forza non è stata la virtù dei nostri avi e dei nostri partigiani). Leggendolo pensavo al craxismo, una grande occasione mancata per il nostro paese, l’idea allora minoritaria di un socialismo liberale e libertario, democratico e proudhoniano. Occasione mancata per un concorso di colpe.

Noi, la mia generazione, non eravamo pronti ad accoglierlo: condividevamo il disprezzo di Marx per Proudhon, diffidavamo della tradizione azionista, dei Rosselli e Calogero, che ci sembrava moralistica e colpevolmente “socialdemocratica” e che invece aveva una radicalità assoluta, quasi anti-italiana (Veltroni provò ad annettersela, ma un po’ frettolosamente). D’altra parte, anche Craxi scegliendo di cavalcare gli spiriti animali della società italiana si illuse di poterli governare, in un rigonfio titanismo della politica, ma ne fu travolto (personalmente avrei dei dubbi anche sul celebre taglio della scala mobile, ma questa è un’altra storia). Non pretendo di riassumere il libro di Martelli – oltre 350 pagine – mi limito a sottolinearne una qualità di fondo. Prima di farlo, però, solo due osservazioni critiche. Anzitutto: per capire come funziona la natura umana, bisognerebbe rivolgersi un po’ di più alla letteratura, che ne è l’unica “scienza”, benché singolarissima (almeno questo fa uno dei maggiori filosofi politici del secolo scorso, Isaiah Berlin).

È vero, Martelli nomina Balzac e Dickens, ma restano in una dimensione meramente sociologica, citati come affilati reporter della società borghese. Per immergersi nel cuore di tenebra degli esseri umani bisognerebbe forse attingere maggiormente al romanzo tra ‘800 e ‘900. E poi: l’autore dialoga proficuamente con filosofi contemporanei, specie di area anglosassone (Sandel, Rawls, Martha Nussbaum, poi l’indiano Amartya Sen…), ma non cita una sola volta Ignazio Silone, che ha scritto il più bel memoriale politico del ‘900 (Uscita di sicurezza) e che alla definizione di un socialismo democratico ha dato un contributo prezioso! Perché non nominarlo? Troppo provinciale, lui e i cafoni della Marsica?

E ora veniamo alla qualità del libro. Attraverso uno stile espositivo di estrema limpidezza, equanimità e onestà intellettuale, Martelli si confronta con i temi del bisogno e del merito, correlati tra loro non solo nell’illuminismo e nella tradizione socialista, ma nella stessa Costituzione italiana (Articolo 37: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i più alti gradi dello studio”). Da un lato, il merito, mix di talento naturale e di impegno: “Un principio più razionale, più giusto, più dinamico del principio ereditario” in base al quale cariche e poteri sono trasmessi per diritto di sangue. Dall’altro, il bisogno, sia come liberazione dal bisogno materiale – Marx nei Grundrisse insiste sull’aumento del tempo libero, per dedicarsi all’ozio o per coltivare attività superiori -, e sia come bisogno umano evoluto, che coincide col desiderio di un pieno riconoscimento da parte degli altri (l’unico bisogno che il capitalismo riconosce è quello del denaro!).

Qui Martelli ha pagine di grande acume sulla interpretazione di Hegel da parte di Kojève (per inciso: non vorrei apparire offensivo, però non mi viene in mente nessun membro della classe dirigente attuale capace di scrivere pagine del genere!). Aggiungerei solo che la meritocrazia forse non dovrebbe riguardare essenzialmente il reddito. Giusto valorizzare talenti e capacità individuali (dovuti in parte al caso, non scordiamolo), ma perché, poniamo, uno stimato cardiochirurgo dovrebbe guadagnare trenta volte il salario di un operoso infermiere? In ciò si alimentano una esclusione sociale e un risentimento che poi formano la base dei populismi attuali. Guadagnare troppo poco, rispetto agli stipendi di chi sta più alto di noi, può incrinare l’autostima delle persone. Trump – proprio lui, paradossalmente – nasce da lì, dal senso di vergogna della gente comune. Per Proudhon la giustizia è un concetto universale, presente a priori nella coscienza umana: “Il riconoscimento in altri di una personalità uguale alla nostra”. Che coincide con la necessità di assicurare a tutti lo sviluppo delle proprie capacità, su base egualitaria.

Particolarmente acuminata e per niente ideologica la critica al neoliberismo, incapace di aprirsi all’ambientalismo e allergico verso qualsiasi intervento dello Stato (e necessario livellamento sociale). Il punto non è coltivare un odio di classe distruttivo. Il “tumulto” è cosa sana, come sapeva Machiavelli, ma va ordinato. Ancora una volta Martelli insiste sulla razionale “convenienza” del socialismo: permettere a tutti di uscire dall’indigenza genera dinamismo, la giustizia sociale è fattore di sviluppo che consolida i legami umani. Anche perciò mi piace che Martelli concluda parlando di povertà, ricordando che la lotta alla povertà rimane “il primo obiettivo da perseguire da parte dello Stato”. Sono gli immigrati – “i dieci milioni di schiavi” – che pagano tutti i conti dell’ingiustizia, mentre i ceti signorili si rendono invisibili al fisco (senza citare qui il modo sciagurato in cui è stato gestito il reddito di cittadinanza).

Torno a Silone, che commemorando Salvemini nel ’57 parlò del suo “socialismo dei poveri e degli oppressi”. Come se un’esigenza autentica di equità e verità potesse trovarsi innanzitutto nel cuore dei diseredati, di chi è letteralmente un “povero cristo”, un niente…Ora, è arduo tradurre un’indicazione del genere nella cosiddetta società dei due terzi (di privilegiati), in cui gli operai diventano minoranza, anche se – ci ricorda Martelli – i poveri assommano in Italia a quasi 6 milioni. Ma il punto è che qualsiasi socialismo democratico, anche il più moderno, il più sofisticato sul piano teorico, avrà sempre bisogno di un riferimento ai poveri cristi. Se fisicamente non li vediamo più, dovremo costantemente immaginarli, e anche riconoscere il “povero cristo” dentro di noi, la nostra parte cioè esposta al male, al caso e alla sventura.

Il socialismo, almeno come idea universalistica, riguarda non tanto e solo una classe sociale determinata, quanto la parte sommersa di ognuno di noi, la sete di giustizia radicata per Silone nel cuore di tutti gli umili e onesti. E qui Silone ci spinge oltre la dimensione politica stessa: per lui infatti il socialismo era l’estensione dell’esigenza etica dalla sfera privata all’intero dominio dell’attività umana. Il che non significa mica che dobbiamo per forza amare il prossimo. Però dovremmo trattarlo così come trattiamo un amico o un nostro caro, con la stessa sollecitudine. Attenti ai suoi meriti e ai suoi bisogni.

l'Unità

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